9 luglio 2001
Mannaggia, sono in ritardo!
È mai possibile che neanche
di fronte a una proposta di lavoro così allettante riesca a essere puntuale? Eppure l’immagine della Statua della Libertà, stampata sul Corriere della Sera, è lì, scolpita
nella mia mente, e mi chiama.
Sgancio la catena della mia
vecchia bicicletta, pinzo i pantaloni per evitare che si sporchino prima del
colloquio e guardo l’orologio. Trenta minuti. Dovrei farcela. Percorro
velocemente corso San Gottardo e Porta Ticinese fino a raggiungere piazza del
Duomo, dove la cattedrale, nella sua maestosità, sembra sorridermi. Per fortuna
alle tre del pomeriggio non c’è molto traffico. Svolto contromano in via Verdi
e, dopo aver attraversato Brera e i bastioni di Porta Nuova, arrivo in viale
Tunisia, davanti al Jolly Hotel.
Tra le tante zone di Milano,
questa è una di quelle che amo di meno. Sarà perché la conosco poco. Essendo
così vicina alla stazione centrale la associo al viavai degli arrivi e delle
partenze, non a momenti di quotidianità. Certo non sembra un luogo adatto per
prendere delle decisioni importanti per il futuro.
Entro nella lobby e mi
sistemo un po’, specchiandomi tra le vetrate. La camicia chiara mette in
risalto la pelle ancora abbronzata e i pantaloni anni Settanta danno un tocco
di classe senza compromettere la comodità. Sorrido alla mia immagine riflessa
nello specchio e cerco di assumere un’aria professionale, ma nello stesso tempo
pratica ed essenziale. In fondo, gli americani li ho sempre visti e immaginati
così.
New York City ha bisogno d’insegnanti
e non credo sarà difficile trovarli. Lavorare nella Grande Mela è il sogno di
molti, tuttavia, per un attimo, un dubbio mi sfiora. Ripensandoci c’è qualcosa
di strano in questo reclutamento in Europa e nei Caraibi. Come mai gli americani non vogliono insegnare?… Già, come mai?
Scaccio questo pensiero, dicendomi che non è certo il modo migliore di
affrontare un colloquio e mi dirigo verso un corridoio molto luminoso, ma senza
finestre. Seguendo le frecce, raggiungo una sala di piccole dimensioni dove
incontro Charlene, una delle responsabili della selezione. Indossa una giacca
perfettamente stirata e una camicetta bianca immacolata. Porta gli occhiali e
ha un aspetto simpatico. Mi fa accomodare, mi porge una cartelletta con una
serie di moduli e si allontana.
Nella stanza c’è confusione,
ci sono altri cinque candidati, più due persone che raccolgono i fascicoli
compilati. Consegno gli stampati mentre Charlene m’informa che sosterrò il
colloquio con John Latona, direttore del personale per il Chancellor
District. Il suo cognome italiano mi rassicura e mi lascio accompagnare nel
suo ufficio.
Latona mi accoglie con un sorriso e una vigorosa stretta
di mano, poi mi fa cenno di sedermi su una poltrona di pelle nera mentre
sfoglia le carte che gli hanno appena consegnato. Lo osservo. Ha le spalle
larghe, gli zigomi pronunciati e gli occhi scuri, ben tagliati. Sembra un uomo
efficiente, pragmatico, uno che sa quello che vuole e sa come ottenerlo.
Accanto a lui siede una donna bionda, indossa un blazer azzurro chiaro, una
psicologa, forse.
«Lei come immagina una scuola
americana?» comincia Latona.
«Multietnica e caotica.»
«E come pensa di gestire una
situazione caotica?»
«Cercando di dare un senso al
caos e creando delle relazioni forti con gli studenti.»
«Ha già vissuto all’estero?»
«Sì! Un anno a San Diego, un
anno ad Angers e uno a Salamanca.»
«Per lavoro o per studio?»
«Entrambi. Nel senso che una
vacanza studio di due mesi a San Diego si è trasformata in un soggiorno di un
anno. Ho lavorato come babysitter, insegnante di italiano e segretaria di un
avvocato che si occupava di adozioni di minori.»
«In Francia invece?»
«Ho studiato all’Universitè
Catholique de l’Ouest, grazie al programma Erasmus e alla seconda laurea in
filosofia e ho lavorato per una società che si occupava di marketing. Ero il “cliente
mistero” di cinema e grandi magazzini. Dovevo fare delle valutazioni sul
servizio, la gentilezza e la competenza con cui mi trattavano.»
«A questo punto mi racconti
cosa ha fatto in Spagna», insiste il direttore con uno sguardo ironico.
«Ci sono arrivata grazie alla
Scuola in Comunicazioni Sociali e Pubbliche Relazioni dell’Università di
Angers. Ho fatto un corso di spagnolo e ho lavorato a tempo pieno come
giornalista per il Tribuna de Salamanca. Mi occupavo dei reportage e
degli articoli di opinione.»
«Capacità di adattamento
sicuramente lei ne ha, ma si sente in grado di gestire dei gruppi di ragazzi
difficili?»
«Credo di sì. Ho insegnato
per diversi anni. Gli adolescenti mi piacciono.»
John Latona, la psicologa e
Charlene si scambiano una occhiata soddisfatta e mi rivolgono un sorriso.
«Per noi va bene. Questa è
una lettera d’impegno del provveditorato americano con cui le offriamo un
contratto di lavoro, per due anni, in una delle scuole del nostro distretto.»
«Dove sarà esattamente la
scuola in cui prenderò servizio?»
«Non è ancora sicuro, ma
molto probabilmente nel Bronx o a Brooklyn.»
«Nel Bronx? Ma non è
considerato un quartiere pericoloso?»
«In parte sì, ma in tutte le
nostre scuole c’è un ottimo servizio di sicurezza.»
«Capisco… Posso pensarci?»
«Certo! Questa lettera è solo
un nostro impegno nei suoi confronti. Se decide di accettare, la aspettiamo a
New York entro il dieci agosto. Altrimenti ci faccia sapere.»
Esco dal Jolly Hotel
stringendo tra le mani il contratto. Non riesco a crederci ma davanti a me ci
sono non più di due settimane per decidere se cambiare nuovamente e
completamente la mia vita.
Pinzo i pantaloni, sgancio la
bicicletta e mi dirigo verso casa.
Sono tre giorni che non penso
ad altro… Parto o non parto? È curioso
ma io, in fondo, non ho scelto di fare questo colloquio, bensì sono state una
serie di coincidenze a condurmici.
Tutto è iniziato lo scorso
marzo, un sabato sera, mentre rientravo a casa da una festa. Ero in macchina,
con mia sorella e un’amica, quando un’auto ci è venuta addosso a forte
velocità. Ricordo il bagliore dei fari e un boato crudo e assordante. L’ambulanza è arrivata dopo pochi minuti e
abbiamo passato la notte al Policlinico. Le quattro settimane di fisioterapia
hanno attutito il dolore alla schiena, ma per aiutare il collo e il morale ho
accettato l’invito di Luciana, una mia compagna di università, a trascorrere
qualche giorno a Ischia. Sono partita dalla stazione centrale in una giornata
di sole di metà aprile. Il treno, con il suo andare lento, mi ha portato fino a
Napoli e a Mergellina ho preso il traghetto. Luciana è venuta a prendermi al
porto.
Le cure termali, il blu
cobalto del mare, l’azzurro intenso del cielo e il profumo di gelsomino mi
hanno fatto rinascere nel giro di pochi giorni.
Una sera, mentre preparavamo
un’insalata, Luciana mi ha detto: «Ho visto un’inserzione sul Corriere della Sera che potrebbe
interessarti!».
«Di cosa si tratta?»
«È una proposta di lavoro.
Cercano insegnanti a New York e tu hai tutti i requisiti: conosci bene l’inglese,
hai l’abilitazione all’insegnamento in una disciplina scientifica, sei
predisposta ai rapporti umani e hai delle precedenti esperienze di lavoro all’estero.»
«Eh! Non sarebbe male vivere
a New York per un po’, ma sono appena tornata in Italia, ho comprato casa e il
lavoro in Università mi piace. Non ho voglia di partire di nuovo, almeno per un
po’.»
«Sì, ma un’occasione così non
ti capita mica tutti i giorni! Tra gli incentivi sembra ci sia anche un master
offerto ai candidati prescelti. Sarebbe ottimo per te. Potresti poi partecipare
ai concorsi universitari con molte più probabilità di vincere. Per prendere
parte alla selezione basta spedire una e-mail… Cosa ti costa? Dai, mandala e
intanto ci pensi.»
«Va bene! Dopo cena la
scrivo.»
Ho spedito il messaggio più
che altro per far contenta Luciana. A distanza di qualche settimana ho
dimenticato l’episodio e non ne ho parlato con nessuno.
Il tutto è tornato alla mia
mente a fine giugno quando una mattina, nella mia casella di posta elettronica,
ho trovato un invito a un colloquio con i responsabili della selezione del
personale del provveditorato americano.
15 luglio 2001
Ho organizzato una cena con i
miei migliori amici. Ė una serata molto calda ma non umida. Il cielo è
luminoso, pieno di stelle. Siamo seduti sul terrazzo, circondati da comignoli e
tegole. Un gatto gironzola sui coppi, la luna ci osserva e le luci dei navigli
di Milano brillano in lontananza.
Vista la confusione che ho in
testa, è meglio chiedere consiglio a chi mi conosce bene. Paolo, Max, Greta e
Michele sono miei amici d’infanzia. Non mi fiderei di nessun altro se non di
loro, se non altro perché so che mi diranno quello che pensano, sinceramente.
Il nostro rapporto è sempre stato profondamente vero e anche se, a volte, dopo
certe frasi, non ci siamo parlati per giorni, so che mi diranno quello che
direbbero a se stessi o a un componente della loro famiglia.
«Voi cosa fareste al mio
posto?» è la domanda scritta al centro della tavola, su un segnaposto che ho
recuperato da una conferenza.
«Bella domanda!» sulle labbra
di Max appare un sorriso ironico. «Certo, New York è l’ombelico del mondo e io
ci andrei correndo, ma dipende da quali sono le tue priorità. Considera che hai
trent’anni e magari è ora di pensare a marito e marmocchi, sempre se li vuoi
avere, chiaramente.»
«Sì Max, si fa per dire New
York… In realtà vogliono mandarla nel Bronx!» Paolo sembra più preoccupato. «Non
so se vi rendete conto ma il Bronx è il Bronx. Va bene tutto, ma io non
rischierei la vita per fare un’esperienza.»
«È vero, il Bronx un po’ mi
preoccupa» nel frattempo mi avvicino al tavolo con un vassoio pieno di
antipasti. «E l’ho anche detto durante il colloquio di selezione, ma anche i
ragazzi che vivono lì hanno bisogno di insegnanti. Anzi, probabilmente ne hanno
più bisogno loro di altri.»
«E quel qualcuno devi essere
proprio tu?» No, non mi sembra di averlo
convinto...
Anche Michele, che nel
frattempo si è procurato una bottiglia di vino in cucina, appare perplesso:
«Sai, pensavo ora ai tuoi genitori, devi anche considerare che non sono più
tanto giovani. Per quanti anni potrai averli ancora con te? E in questa fase
della vita sei indispensabile per loro».
«Ragazzi ma vi rendete conto
che state valutando solo gli aspetti negativi?» irrompe Greta. «Secondo me
questa è un’occasione straordinaria che non capiterà più. Tu sei una
viaggiatrice, vai, prova, al peggio torni indietro.»
«Tu la fai facile, ma il
lavoro in Università? Sai quante persone vorrebbero essere al suo posto?
Lasciarlo è un’idiozia.» Paolo è sempre
più scettico...
«Certo che tu hai proprio un
senso del rischio e dell’avventura pari a zero! Hai mai sentito parlare di come
si classificano gli esseri umani secondo gli Xhosa?»
«No! Non so neanche chi
siano.»
«Sono una tribù africana.
Secondo loro gli uomini si dividono in leoni e pecore e i leoni non pensano
certo alla pensione. Lei è un leone. Tu una pecora. Questo è il motivo per cui
non capisci perché dovrebbe fare una scelta diversa da quella che faresti tu»
dice Greta tra le risate generali.
«E cosa dicono gli Xhosa per
sostenere la scelta che tu pensi giusta?» Il
tono di Paolo è un po’ scocciato.
«Dicono che un uomo selvaggio
vive fino a trentacinque anni. Per questo, nella società occidentale, questa è
l’età in cui si inizia a pensare alla morte. E da lì cambia tutto.»
Greta si versa un bicchiere
di vino, poi mi guarda diretta negli occhi e conclude: «È vero che viviamo in
una società fatta di schemi e preconcetti, ma siamo i burattini di un gioco già
prestabilito o possiamo scegliere la nostra vita? Hai di fronte a te un’avventura
incredibile, a cui pochi possono accedere. Pensaci bene prima di buttarla via.
Chi può conoscere il futuro? Nessuno può dirti cosa è meglio ma sappi che
niente succede mai per caso, quindi, se ti hanno scelta, forse una ragione c’è,
non credi?».
Il coraggio e la fiducia di
Greta portano dalla parte del sì anche Max. Paolo e Michele rimangono sul no. Due a due, in pratica, nessuna risposta. E
mancano pochissimi giorni alla mia eventuale partenza.
16 luglio 2001
È da mezz’ora che cammino per
le vie che incrociano corso San Gottardo cercando di ricordare dove ho
parcheggiato. La cena di ieri sera non mi ha aiutato molto. Sono più confusa di
prima ma forse è giusto così, non posso delegare ad altri una scelta che devo
fare io. Questa volta però è davvero difficile prendere una decisione.
Finalmente, in via Tabacchi,
ritrovo la macchina. La riconosco da lontano per le margherite rosa e bianche
che ho dipinto sulla carrozzeria in un pomeriggio di primavera. Apro la
portiera, appoggio la borsa di cuoio sul sedile di fianco a quello di guida e
vedo un foglio. È la pagina di un’agenda. In alto a sinistra c’è una data: il
ventitré marzo… il giorno in cui ho fatto l’incidente in auto che mi ha portato
a Ischia. Di fianco alla data c’è una scritta stampata in rosso: “Dio sarà con
te in questo viaggio”. Il resto della pagina è bianco. Rimango paralizzata, con
il foglio in mano, e mi ci vogliono diversi minuti per capire che qualcuno l’ha
infilato da una fessura del finestrino, che avevo lasciato leggermente aperto. È
una coincidenza così assurda che se non fosse successa a me non ci crederei.
Chi ha fatto una cosa del genere? Non possono essere stati i miei amici,
nessuno ha un’agenda con frasi religiose scritte di fianco alle date. Ma allora
chi ha visto che il vetro non era completamente chiuso e ci ha lasciato cadere
dentro un messaggio con una data?
L’unica spiegazione
plausibile è pensare ai testimoni di Geova, sono loro che cercano proseliti per
le strade. Cerco di convincermi che è così, devo dare una spiegazione razionale
a una coincidenza che sembra soprannaturale.
Guardo di nuovo la pagina.
Non c’è scritto niente, neppure un invito per un incontro, un numero di
telefono per informazioni. Niente. Solo quella scritta, stampata in rosso
vicino alla data: “Dio sarà con te in questo viaggio”… Ma allora è deciso. Devo
andare.
8 agosto 2001
Il destino è più potente di
noi, ci accompagna nei sentieri della vita e ci indica la direzione da seguire.
Noi dobbiamo solo ascoltarlo. Per una serie di strane coincidenze, nelle ultime
tre settimane, ho incontrato le persone che più hanno influito sulla mia
esistenza finora e, rivedendole, ho avuto la sensazione di aver chiuso ogni
conto con il passato, di aver sistemato ogni piccolo pezzo del puzzle della mia
vita.
Alla vigilia di questa
partenza ho fatto davvero tutto quello che dovevo fare, anche se un mese fa non
lo credevo possibile. Ho lasciato il mio lavoro all’Università, affittato la
mia mansarda e salutato le persone a cui voglio bene.
È quasi mezzanotte. Sistemo
le ultime cose in valigia. Sarà meglio dormire un po’. Sto per spegnere il
cellulare quando mi arriva un messaggio: “Brooklyn, Sesta avenue, bella prof
italo-americana all’uscita da scuola passeggia con uno studente afrocubano. Le
squilla il cellulare. Una voce dall’altra parte dice fatti mandare dalla mamma...”.
Sorrido. Paolo, al solito, è
riuscito a sdrammatizzare.
9 agosto 2001
Tra poco passeranno a
prendermi. Cammino tra la camera e la cucina, e la cucina e la camera, cercando
di pensare se ho dimenticato qualcosa di importante. Gli ultimi minuti prima di
ogni partenza sembrano eterni. Credo di aver preso proprio tutto, o perlomeno
tutto ciò che mi sembra indispensabile e che può essere contenuto in due
valigie da trenta chili ciascuna. Chiudo i bagagli, riordino le ultime cose e,
prima di spegnere il portatile, controllo la mia casella di posta elettronica.
Un’amica mi ha inviato un brano tratto dal Profeta
di Gibran: “Eppure di più non posso
aspettare. Il mare chiama a sé ogni cosa, mi vuole e mi devo imbarcare. Perché il
restare, benché brucino le ore nella notte, è farsi ghiaccio e cristallo, è
come rimanere prigioniero di una forma. Sarei felice di portarmi dietro ogni
cosa che è qui. Ma come posso farlo? Non può una voce tirarsi dietro la lingua
e le labbra che le diedero ala. Da sola deve tentare il cielo. E sola senza il
suo nido volerà l’aquila in alto, dentro il sole”.
Spengo il computer. Ora sono
davvero pronta.
10 agosto 2001
Sono appena atterrata al JFK. È la notte di San Lorenzo ma qui
di stelle se ne vedono poche. Ci sono troppe luci, troppe piste d’atterraggio.
Salgo su un taxi. Un uomo
indiano di circa trent’anni mi chiede la destinazione.
«1520 Pennsylvania avenue,
Brooklyn.»
«All’incrocio con quale strada?»
«… Non lo so. È una residenza
universitaria, si chiama Long Island.»
«La troveremo… Sei italiana?»
«Sì.»
«Dopo dieci anni di lavoro
difficilmente mi sbaglio sulla nazionalità dei miei passeggeri e voi italiani
siete tra i più facili da riconoscere.»
«Per l’accento?»
«Sì, ma anche per il modo di
vestire, e per le borse… sei una studentessa?»
«Veramente sono un’insegnante…
»
«Che Dio ti benedica!»
«Grazie… ma perché?»
«Perché il tuo è uno tra i
lavori più nobili che esistano. In India c’è un proverbio che dice: “Dopo Dio c’è il tuo maestro”… Peccato che in America non sia esattamente così.»
«Cosa intendi dire?»
«Gli insegnanti qui non sono
rispettati, i ragazzi spesso li insultano, a volte addirittura li aggrediscono…
È molto triste… Comunque io mi chiamo Sunjay.»
Sunjay percorre velocemente, spostandosi
in continuazione da destra a sinistra e da sinistra a destra, una tangenziale
che ci porta verso Manhattan. Ha voglia di chiacchierare nonostante sia notte
fonda. Mi dice tante cose, ma sono talmente frastornata dall’orario e dall’emozione
di vedere in lontananza, e allo stesso tempo così a portata di mano, lo skyline
dell’isola che faccio davvero fatica ad ascoltarlo. Una frase, però, colpisce
la mia attenzione: «A New York non ti devi fidare di nessuno, nemmeno di me».
Si ferma, poco dopo, davanti
a un edificio mal illuminato, mi aiuta a scaricare i bagagli, lo pago, lui mi
sorride, mi ricorda che qui la mancia è obbligatoria e si allontana dicendomi:
«Welcome to the City».
La residenza avrà circa
dodici piani. Un uomo alto, afroamericano mi dà il benvenuto e la chiave della
camera. All’ingresso, oltre alla gabbiola del portiere, ci sono una bacheca
piena di annunci, una macchinetta che distribuisce bevande e un telefono
pubblico che mi ricorda la promessa fatta alla mia famiglia di chiamarli non
appena atterrata. Alzo la cornetta, un’operatrice mi risponde seccata. Mi dice
di mettere diciassette dollari in monete da venticinque centesimi per il
collegamento. Cerco di spiegarle che voglio fare una telefonata molto breve e
che, chiaramente, non mi ritrovo in tasca una settantina di quarters ma, a quanto pare, non vuole
capire. Le chiedo se c’è un altro modo per telefonare però lei si guarda bene
dall’aiutarmi. Ci rinuncio.
Salgo all’ottavo piano, nella
camera che il board of education ha prenotato per me. È una stanza di
tre metri per quattro con due letti e degli strati consistenti di polvere
ovunque. C’è una donna all’interno, quando entro si sveglia e si presenta. Si
chiama Luciana, come la mia amica ischitana, ed è a New York per il mio stesso
motivo. Scambiamo due chiacchiere veloci mentre sistemo le valigie nell’unico
metro di spazio ancora libero. Sono le due di notte ma per me le otto del
mattino. Sono talmente stanca che non ho la forza di alzare un dito. Prendo un
paio di lenzuola, che fortunatamente mi sono portata, e un pigiama estivo.
Spengo la luce, dimentico lo squallore che mi circonda e, mentre chiudo gli
occhi, mi tornano alla mente le parole di Sunjay: «Welcome to the City».
14 agosto 2001
New York è l’unico posto al
mondo in cui, anche chi ci arriva per la prima volta, ha l’impressione di
ritornarci. Sarà per i film o per la facilità con cui ci si orienta, ma è
facile sentirsi newyorchesi dopo un pomeriggio passato a passeggiare tra le streets e le avenues.
New York è la città dei mille taxi gialli. Degli americani che camminano
con il loro caffè tra le mani. Dei barboni seduti tra l’indifferenza di uomini
d’affari e grattacieli di centinaia di piani. Della Quinta avenue con i suoi
lussuosissimi palazzi. Della tranquillità di Central Park. Della cordialità
delle persone che, se ti vedono in difficoltà, si offrono di aiutarti.
New York è tutto e il suo contrario. È la città delle mille diverse razze.
Della gente reale, viva. Sono cinque giorni che la percorro in lungo e in largo
e ancora mi fermo incantata a guardare le persone. Emanano energia, forza e
grande determinazione. Ogni cosa qui sembra elevata all’ennesima potenza. È più
grande, più sporca, più colorata, più rumorosa, più vera, più crudele, più
accattivante, più animalesca, più umana.
New York è la città dei
ragazzi di colore che ballano l’hip hop. Delle limousine che sfilano nelle
strade. Dell’incanto del ponte di Brooklyn di notte. Degli operai della metropolitana che lavorano
ascoltando la musica di Aretha Franklin. Delle stradine e dei prati verdi del West Village.
Delle ragazze che girano in pigiama o vestite come principesse. Del mio naso
sempre all’insù. E del cielo.
New York non dorme mai. Con i
suoi negozi aperti ventiquattr’ore su ventiquattro. Le sue ventidue linee della
metropolitana in continuo movimento. La musica per le strade. Le sirene che
urlano impazzite e i camion dell’immondizia che girano per tutta la notte.
A pelle si percepisce che è
una città di lottatori e lottatrici. Una piccola giungla dove la selezione
della specie non avviene in base al caso, ma seguendo una legge ben precisa.
Solo chi saprà conquistare le informazioni e capire le dinamiche del gioco
sopravvivrà.
15 agosto 2001
Il programma di reclutamento
degli insegnanti internazionali è stato organizzato davvero su grande scala. A
New York siamo arrivati in settecento, da tutto il mondo. Gli italiani sono
diciotto, me compresa.
Il provveditorato americano
ha previsto una serie di incontri per prepararci al lavoro che ci aspetta. Oggi
siamo al New Yorker Hotel. È uno spettacolo di luci, colori, palloncini rossi
su cui spicca una scritta bianca: Welcome. Gli oratori si alternano
facendo, ciascuno a modo suo, un piccolo show. Sembra che l’obiettivo
principale sia intrattenere la platea e farla ridere; il fatto di trasmettere
informazioni pare secondario. La didattica non è neppure presa in
considerazione, al contrario molti parlano di metal detector, detenzione illecita di armi e corsi da seguire per
evitare di finire in galera per una parola o un gesto sbagliato nei confronti
di quelli che loro chiamano “bambini” e,
presumo, intendano i nostri studenti.
Mr. David Amory, un uomo
alto, sulla sessantina, prende in mano il microfono, grida un fragoroso «Good
morning!» poi avvicina la mano a un orecchio per farci capire che aspetta
dalla platea la stessa risposta. «Good morning!» gli rispondiamo in coro
ma a quanto pare non con sufficiente entusiasmo perché a voce ancora più alta
ripete nuovamente «Good morning!» e dalla platea si alza un grido
mischiato a una risatina.
«Siete pronti per questa
avventura? Siete pronti?»
«Sìììììììììììììì!»
«I ragazzi di New York hanno
bisogno di insegnanti come voi. Di persone che sono venute qui per lasciare un segno.
Quanti di voi si ricordano il nome del loro insegnante di scuola elementare? Su
le mani... Bene, bene, quasi tutti. Ora pensate a quanti ragazzi ricorderanno
il vostro nome... Come vi sentite? Orgogliosi. E così dovete sentirvi,
orgogliosi, orgogliosi di essere i nuovi insegnanti di New York City».
Tutto ciò succede mentre in
Italia è ferragosto e tutti i miei amici sono al mare ad abbronzarsi.
16 agosto 2001
Il secondo workshop è al
Madison Square Garden dove, per noi, sono stati allestiti una miriade di stand.
I vari espositori ci danno informazioni frammentate e confuse sui libri di
testo da adottare, le nuove metodologie di studio da utilizzare, specialmente
con i ragazzi più difficili, le possibili applicazioni informatiche. Pare che
ciascuno voglia venderci qualcosa mentre ci regala penne, matite e block notes.
Siamo circondati dalla stampa. Stefano Vaccara intervista i professori italiani
per America Oggi, il quotidiano della
nostra comunità che esce, negli USA, con La
Repubblica, e Monica Stefinlongo per Radio
105.
Mi ferma una giornalista di
un’emittente televisiva olandese.
«Da quale Paese provieni?»
«Dall’Italia.»
«E cosa ne pensi di questo
programma di reclutamento internazionale?»
«Mi sembra interessante,
anche se non ho ancora capito come mai siamo arrivati in settecento… Sembra che
qui nessuno voglia insegnare.»
«Quali sono i principali
problemi che stai affrontando?»
«Trovare casa è senz’altro
una priorità. Il provveditorato americano ci ha offerto solo dieci giorni di
alloggio spesato.»
«Dove dormi ora?»
«In una residenza
universitaria a Brooklyn. Orribile.»
«E fino a quando ci potrai
restare?»
«Fino a dopodomani.»
«E poi non sai dove andare?»
«No!»
«E come ti senti?»
«Preoccupata ma anche felice
di lasciare il posto dove ci hanno confinato.»
Dopo aver spento il
microfono, allontana un ciuffo di capelli biondi dagli occhi, mi sorride e mi
dice: «Ti capisco. Succede a tutti di avere delle difficoltà all’inizio. È
capitato anche a me… Io domani parto per l’Olanda, starò via due settimane, non
è molto ma se vuoi puoi subaffittare la mia stanza. Vivo nell’East Village».
18 agosto 2001
Oggi si chiude la prima
settimana di incontri. C’è una cerimonia ufficiale. Ci danno il benvenuto il
provveditore Joel J. Lewis e il presidente del nostro sindacato Robert
Whitfield. Passiamo tre ore seduti ad ascoltare una serie di salamelecchi senza
contenuto e tutto questo mi fa capire che la forma, forse, qui conta più della
sostanza. La parte divertente è che mi sembra di far parte di uno show. C’è una frase che tutti ripetono
senza sosta, quasi fosse uno slogan: «You are going to make a difference»…
Chissà cosa intendono esattamente.
Ieri mi sono trasferita nell’East
Village, a due passi da St. Marks Place. L’appartamento è piccolo ma la zona è
giovane e vivace. Divido la casa con altre tre ragazze, assomigliano alle Spice
Girls. Nella mia camera c’è solo un letto matrimoniale e per salirci bisogna
lanciarsi dal fondo, non c’è spazio né a destra né a sinistra. In ogni caso mi
sento in paradiso se paragono questa stanza a quella in cui dormivo fino a due
giorni fa. Da oggi inizio seriamente a cercare casa.
20 agosto 2001
Il
provveditorato ha finalmente comunicato a ogni docente la scuola a cui è stato
assegnato. Io lavorerò nella High School for
Scientific Studies, in Flushing avenue a Brooklyn.
Appena ho
ricevuto la notizia ho pensato una sola cosa: devo vederla! Voglio sentire l’emozione che si prova aggirandosi
per i corridoi ed entrando nelle aule. Voglio incontrare le persone del
quartiere e vedere le facce di quelli che potranno essere i miei studenti.
Voglio conoscere i miei colleghi.
Realisticamente
credo di volere un po’ troppo, visto che siamo in pieno agosto. In ogni caso ci
devo andare, devo almeno scoprire com’è l’edificio.
Prendo la
metropolitana a Union Square, la linea L, e nel giro di pochi minuti mi ritrovo
a Brooklyn, davanti alla scuola. È uno stabile di grandi dimensioni, a tre
piani, di un giallo ocra scurito dal tempo. Noto con piacere che sui muri non
ci sono scritte e nessuna finestra è rotta. Faccio invece fatica a vedere l’entrata,
sembra quasi non ci siano vie di accesso a quella che per un momento mi sembra
un’immensa fortezza.
Circumnavigo il
fabbricato e finalmente trovo una porta. All’entrata mi accolgono tre
poliziotti.
«Desidera?»
«Vorrei
incontrare il preside, sono la nuova insegnante di matematica.»
«Compili questo
modulo… Ho bisogno anche di un suo documento. L’ufficio del preside è al
secondo piano. Trova l’ascensore in fondo a destra.»
Firmo il modulo,
consegno la carta d’identità e mi dirigo verso l’ascensore.
Ecco, questi saranno i corridoi e le aule in cui
camminerò e insegnerò quest’anno. La scuola è
molto simile ai nostri istituti tecnici ma più pulita, più ordinata. Scopro con
piacere che sono in corso gli esami estivi perciò non è deserta.
Salgo al secondo
piano. Il preside è occupato ma mi presentano Hoger Fernandez, vicepreside e
responsabile del dipartimento di matematica per le tre scuole che fanno parte
del campus. Fernandez potrebbe essere un cognome spagnolo o latinoamericano, ma
Hoger ha un suono tedesco.
«Quindi lei è
stata assegnata a questa scuola dal Provveditore?»
«Sì! L’ho saputo
oggi.»
«Bushwick non è
un quartiere facile, spero glielo abbiano detto. Qui si lavora molto. I ragazzi
la metteranno alla prova, tanto più che lei non è americana, perciò non si
aspetti di avere vita facile, soprattutto nei primi mesi e io, in quanto responsabile del
dipartimento, dovrò assicurarmi dei suoi risultati.»
«Farò del mio
meglio, Mr. Fernandez!»
«Molto bene, Miss
Dalavaie.»
Sorrido per la
versione sudamericana con cui ha pronunciato il mio cognome ma lui non se ne
accorge, è troppo intento a darmi qualche veloce informazione sui programmi e
sulle regole da rispettare.
«Le lascio
questa dispensa. Troverà delle informazioni sulla scuola e sulle norme a cui
gli insegnanti devono attenersi.»
Mentre Mr.
Fernandez mi ricorda gli orari di entrata e uscita, io lo osservo, e più lo
osservo più mi ricorda qualcuno. La faccia piena, gli occhi piccolini e un po’
scavati circondati da occhiali tondi e spessi, le labbra carnose e le mani
paffute. Un attimo ed è illuminazione: Napoleon. È lui fatto persona, il maiale
dittatore creato da George Orwell, o perlomeno è come io ho sempre immaginato
Napoleon. Per un momento mi viene da ridere. Meglio non farlo. Mr. Fernandez mi
ha già detto che è uno a cui non piace scherzare, il suo compito è farci
lavorare sodo. Mi ha anche confidato che è nato in Ecuador e, come tutti gli
immigrati, ha combattuto duramente per conquistarsi la sua fetta di felicità e
ogni giorno fa ciò che è necessario per continuare a mordere un pezzetto della
Grande Mela.
30 agosto 2001
Da quando sono arrivata a New
York avrò visitato almeno cinquanta appartamenti: monolocali, bilocali, case da
condividere con famiglie che vogliono arrotondare, studi di artisti, ex
magazzini trasformati in abitazioni, cantine. Ti offrono anche quelle e non c’è
da meravigliarsi, qui qualsiasi luogo con quattro pareti e un wc è affittabile.
Il fatto che nelle case non ci sia luce naturale, che manchino le finestre e di
conseguenza l’aria, che siano squallide, sporche e completamente vuote è considerato
del tutto normale e se ti permetti di farlo notare passi anche per una
rompiscatole.
Ho incontrato Michael, l’agente
immobiliare della Grimm’s, all’angolo tra Canal e Allen. Abbiamo camminato
lungo la East Broadway fino al numero otto di Montgomery street.
«Come vedi questo è un
condominio di soli sei piani, un brownstone
costruito negli anni Trenta.»
«Sì, non è male anche se la
metropolitana è un po’ lontana da qui.»
«Mah, saranno dieci minuti a
piedi, è un buon esercizio, non avrai neanche bisogno della palestra.»
«Già.»
Siamo saliti al quinto piano,
senza ascensore, poi Michael ha tirato fuori un grosso mazzo di chiavi e ha
aperto la porta. Mi sono trovata in un monolocale spoglio e buio di non più di
venticinque metri quadrati. Ho controllato il bagno e le finestre, ed erano in
pessimo stato, poi ho chiesto a Michael quanto costava.
«Ti faccio un buon prezzo perché stimo
la tua professione e tu mi ricordi la mia insegnante delle elementari… diciamo
mille e cento.»
«Mille e cento dollari al
mese!»
«Sì! Oltre al deposito e alla
mia commissione.»
«E a quanto ammonterebbero?»
«Per questo appartamento ci
sono da pagare due mesi di deposito più, naturalmente, il primo mese di
affitto, quindi tremilatrecento dollari più la mia commissione che è pari a un
mese di locazione, come sai. In totale sono quattromila quattrocento dollari.
Il contratto è annuale e se decidi di stipularlo devi portarmi il cedolino del
primo mese di stipendio e il codice fiscale americano.»
«Purtroppo non ho ancora né l’uno
né l’altro… e il prezzo mi sembra molto alto per un appartamento così piccolo e
ridotto in questo stato.»
«Mi spiace ma allora, al
momento, non c’è niente che posso fare per te. Quei documenti sono
indispensabili e credimi, il prezzo non è alto.»
Sono rientrata a Brooklyn. Il contratto di subaffitto nell’East Village è
scaduto e al momento sia io che Andrea siamo ospiti di Pilar, una collega
spagnola, che ha trovato una stanza in un appartamento di Park Slope, in
condivisione con due ragazzi sudamericani. Dormiamo in salotto.
Ho incontrato Andrea al Jolly Hotel di Milano, il giorno del mio colloquio.
Da allora ci siamo dati una mano a vicenda nell’organizzazione della partenza e
nella preparazione della miriade di documenti e certificati che il
provveditorato americano ci aveva richiesto. Siamo diventati amici. Arrivati a
New York non conoscevamo nessuno, per questo ci siamo rincuorati a vicenda e
aiutati nelle piccole lotte di ogni giorno. Con il passare dei giorni e il
crescere delle difficoltà, cercare casa insieme è diventata una necessità più
che una scelta.
Le luci della sera sono ormai calate, mi siedo di fronte
alla finestra ma non osservo nulla.
«Pilar, cosa dobbiamo fare? Negli ultimi giorni le
abbiamo provate davvero tutte: gli annunci sul “Village Voice”, le ricerche via internet, il passaparola, le
agenzie. Niente. Gli appartamenti compatibili con il nostro stipendio sono così
brutti, sporchi e in quartieri così malfamati che rischi la vita solo ad
andarli a vedere.»
«Sono certa che troverete
qualcosa, non ti scoraggiare, e comunque potete stare qui con noi fino a quando
lo vorrete. In fondo è divertente essere in cinque. Park Slope non è Manhattan,
ma qui tu ed Andrea siete i benvenuti.»
«Sei un vero tesoro, ma dobbiamo
trovare al più presto una sistemazione. L’appartamento è piccolo e tu e i
ragazzi avete bisogno di spazio e tranquillità e noi non vorremmo fare la
stessa fine dei protagonisti di The Mole
People… l’hai letto?»
«No, ma ne ho sentito
parlare.»
«Fino a qualche anno fa,
nella zona di Bleecker street, c’erano centinaia di persone che pur di non
vivere in strada si erano appropriate dei vecchi tunnel della metropolitana e
abitavano lì, come topi, in mezzo ai topi… sembra incredibile vero?»
«Dio mio, ma com’è possibile
che cose del genere possano succedere in uno dei Paesi più ricchi del mondo e a
cavallo del secondo millennio?»
«Se lo chiedi a un agente
immobiliare lui ha la risposta… That’s
the City».
2 settembre 2001
A New York la festa del
lavoro è il primo lunedì di settembre e, per gli insegnanti, coincide con l’ultimo
giorno di vacanza prima dell’inizio del nuovo anno scolastico.
Un autobus di una compagnia
cinese mi ha portato, per pochi dollari e in poche ore, da Downtown Manhattan a
Washington DC. Gwen, Henri e Vlad sono venuti a prendermi all’arrivo.
Gwen e Henri sono francesi e
vivono proprio a Washington, mentre Vlad è rumeno e abita in North Carolina. Ci
siamo conosciuti in Francia sei anni fa, durante il periodo del mio programma
Erasmus. Ora risiediamo tutti nella costa est degli Stati Uniti. Visti i tre
giorni di vacanza ne abbiamo approfittato per incontrarci di nuovo.
È proprio vero che appena si
ritorna in una situazione del passato il tempo automaticamente si annulla. I
sentimenti veri non cambiano con il passare degli anni, semplicemente a volte
si congelano ma riemergono prepotenti, inalterati e chiari al primo abbraccio.
Washington è molto europea.
Con i suoi viali larghi e i maestosi monumenti mi ricorda Vienna e forse un po’
anche Roma. Camminare per la città mi ha dato modo di riflettere. In fondo
tutto è successo così velocemente. Mi sono ritrovata a New York senza quasi
rendermene conto e la città, con le sue mille emozioni, mi ha trascinato nel
suo vortice dove non sempre si trova il tempo per pensare. E pensare è
fondamentale nella vita. Dobbiamo sapere se siamo dove vogliamo veramente
essere.
È bastato allontanarsi per
far emergere la fatica e lo stress accumulati in queste settimane: quante lotte,
emozioni, attese, aspettative in così pochi giorni, e le lezioni non sono
ancora iniziate…
4 settembre 2001
È il primo giorno di scuola. Sono
emozionata quasi quanto il giorno in cui io mi sedetti, per la prima volta,
dietro un banco. Non dimenticherò mai quel giorno e
probabilmente non dimenticherò nemmeno questo quattro di settembre.
Arrivo a
Bushwick poco prima dei ragazzi. Le frecce gialle appiccicate ai muri mi
conducono verso l’aula magna. Mi siedo di fianco a una donna alta e grassoccia.
Sicuramente una collega. I ragazzi entrano poco dopo. Solo il nostro istituto
ha circa duecento freshman. Più i sophomore, i junior e i senior.
Sono, per la maggior parte, ragazzi di colore: afroamericani e ispanici. Di
bianchi, ne ho visti pochi.
Il preside fa un
lungo discorso e conclude dicendo: «Noi crediamo nell’onore, nella dignità e
nell’eccellenza. E inizieremo fin dal primo giorno a pretendere da voi tutto
questo».
Vengono poi
distribuiti i programmi. I ragazzi si mettono in fila per raggiungere i
tavolini disposti di fronte al palco e divisi in base all’iniziale dei loro
cognomi. Dalla A alla G, dalla H alla N e dalla O alla Z. Una donna, con i
capelli corti e lo sguardo provato, fa notare a una ragazza che la sua gonna è
troppo corta e le dà una sculacciata benevola.
Mi dirigo verso
la mia aula. Mr. Fernandez me l’ha assegnata fin dal nostro primo incontro. Il
corridoio è affollatissimo. Non riesco quasi a camminare. C’è molto rumore, ma
tra le urla riesco a distinguere un altoparlante: «Dovete essere in classe ogni
giorno alle otto. Non alle otto e un quarto e non alle nove. Ricordatevelo. Vi
aspettiamo alle otto. I ritardi non sono ammessi».
Mi consegnano la
lista con i nomi dei ragazzi. Oggi ci sono solo due ore di lezione. Ho tre
classi e circa trenta studenti in ognuna. Molti di loro non si sono presentati,
sono venuti a scuola solo per ritirare il programma, sanno che oggi non si va
oltre l’appello e a una breve presentazione. Alcuni entrano a curiosare, mi
guardano, salutano ed escono dicendomi: «Ci vediamo domani, prof!».
Con i pochi che
sono rimasti, parlo un po’ di me e degli argomenti che affronteremo. Ricordare
i loro nomi richiederà del tempo perché questa volta non si tratta solo di
associarli a dei volti, ma spesso vuol dire imparare anche una nuova parola.
7 settembre 2001
Mi chiamano Miss
D., il che non mi dispiace, il mio cognome per loro è difficile. Come è
difficile per me questo incarico. A distanza di pochi giorni dall’inizio dell’anno
scolastico ho già toccato con mano le complicazioni. Qui non basta essere un’insegnante,
devo diventare una psicologa, un’attrice e una mamma.
Le classi sono
complesse. I gruppi sono basati sull’aggregazione razziale: i neri stanno con i
neri, gli ispanici con gli ispanici, i bianchi con i bianchi. È difficile
vederli mischiati. Sono violenti e rumorosi, urlano, cantano, ballano, si
muovono in continuazione, quasi per scaricare la tensione e la rabbia che hanno
in corpo. Non conosco ancora il loro vissuto, ma ciò che mi è apparso chiaro
immediatamente è il loro bisogno di sentirsi accettati per quello che sono.
Cercano costantemente di attirare la mia attenzione e vogliono capire se
davvero resterò lì con loro o se me ne andrò, come hanno fatto tanti altri
prima di me. E vogliono capirlo subito.
«Ti metteranno
alla prova» mi aveva detto Mr. Fernandez. E così è stato. Per tre giorni mi
hanno letteralmente impedito di fare il mio lavoro. Si sono rifiutati di
sedersi ai loro posti e mi hanno beffeggiato: «Cazzo! Puoi insegnare o no?».
Tolgo dalla
classe tutti i banchi e le sedie, li chiudo nel magazzino vicino all’ufficio
del preside, lasciando l’aula completamente vuota. Quando i ragazzi arrivano,
mi trovano seduta alla cattedra con alle spalle, scritti alla lavagna, una
serie di esercizi da fare.
«Ma che cazzo è
successo qui? Dove sono i banchi e le sedie?»
«Cara Ceandra,
ti ricordo che in questa aula non sono ammesse le parolacce. Quello che è
successo è semplice: ho ascoltato le vostre richieste. Non eri tu che ieri mi
hai detto che non volevi sederti? E se non sbaglio non eri la sola ad avere
questo atteggiamento. Per cui ho pensato di venirvi incontro: se non volete
stare seduti allora facciamo lezione in piedi.»
«Ma da dove
cazzo viene questa?»
«Buongiorno
Joshua! Vedo che entrando in classe in ritardo non hai sentito quello che ho
detto! Qui non si possono dire parolacce e se le usate ci saranno delle serie
conseguenze. Comunque, per rispondere alla tua
domanda, vengo dall’Italia, un Paese dove i ragazzi si siedono quando entrano
in classe ma visto che qui le usanze sono diverse io mi adeguo. Oggi facciamo
lezione in piedi. I banchi e le sedie li riavrete solo se li userete. Alla fine
dell’ora, chi vuole può firmare questo foglio: è un contratto con cui vi
impegnate a sedervi quando entrate in classe e ad alzarvi solo con il mio
permesso.»
Diversi oggetti
volano in aria come risultato dell’ira generale e sento parecchie maledizioni
tra le urla e le chiacchiere che riempiono la mia junior class. Non riesco a svolgere nessuno degli esercizi
proposti alla lavagna ma alla fine dell’ora tutti i ragazzi firmano il
contratto per riavere banchi e sedie. Quella di oggi è la mia prima, grande
conquista.
8 settembre 2001
A volte mi
domando come sia possibile che l’uomo abbia delle capacità così straordinarie e
sia in grado di costruire cose così impressionanti.
Oggi è uno di quei giorni.
È sabato e sono ai piedi delle Torri Gemelle. È una serata
calda e la città sprizza allegria da tutti i pori. È uno spettacolo di luci,
volti, suoni. Ci sono centinaia di persone in questa piazza.
Sono in ritardo
ma è impossibile camminare velocemente, sono rapita dalla magia che mi
circonda, mi sento una lillipuziana appena approdata nella terra dei giganti,
che cammina con gli occhi al cielo e la bocca aperta. Eppure a New York c’ero
già stata, ma il World Trade Center è così imponente che non puoi non provare
un brivido ogni volta che arrivi in questa piazza.
Il gruppo degli
insegnanti italiani è già in fila. Li raggiungo e prendiamo insieme l’ascensore.
Un ragazzo, poco più che ventenne, dai lineamenti latini e dallo sguardo
profondo, ci porta sulla cima della seconda torre. Quando le porte si aprono i
miei occhi luccicano di meraviglia. Sono al Windows on the World. È un
bar circolare, tutto a vetri, con al centro una console per il dee-jay e una pista da ballo. Affacciarsi
alle finestre fa salire l’adrenalina; l’altezza è impressionante. Da qui si
domina l’intera città. Si vedono l’Empire State Building, il Chrysler, la
Statua della Libertà, il ponte di Brooklyn e quello di Manhattan. Rimango
estasiata come una bambina che ha appena visto illuminarsi il suo primo albero
di Natale; appiccico il naso ai vetri per guardare un po’ più lontano e sentire
nello stesso tempo la forza e l’energia di questo edificio.
Le persone
intorno a me emanano allegria. Una coppia, non più giovane, si è appena sposata
e sta festeggiando. Vado al bar a prendere un Baileys. La barista mi sorride.
Potrebbe essere californiana. È alta, ha i capelli biondi raccolti in una coda
di cavallo piena che le scende sulle spalle. La maglietta nera attillata mette
in risalto un corpo atletico e dei denti bianchissimi. Sono stanca ma felice.
Finalmente, dopo due settimane estenuanti, tiro il fiato. New York mi appare in
tutta la sua bellezza e mi sento davvero fortunata al pensiero di poter vivere
in questo luogo pieno di sogni, speranze e possibilità.
«È bello vederti
sorridere» Andrea mi raggiunge sulla pista da ballo al ritmo di American Pie. «A
cosa stai pensando?»
«Alle facce che
faranno i miei amici milanesi quando li porterò qui.»
«Questo bar è
spettacolare. Ma non vorrai aspettare che arrivino degli ospiti per tornarci?»
«Certo che no!
Anzi, proprio prima ne parlavo con Luciana, il prossimo venerdì ci torniamo per
festeggiare la seconda settimana di scuola. Sarai dei nostri?»
«Affare fatto!»
accetta Andrea strizzandomi l’occhio.
9 settembre 2001
Da alcuni
giorni, in città, c’è un Festival di Danza Contemporanea. Ai piedi delle Torri
Gemelle è stato allestito un grande palco e ogni sera si alternano alcuni tra i
più famosi ballerini americani ed europei.
Mi siedo a
terra, le poltrone sono ormai tutte occupate. Fa caldo ma non c’è afa, l’estate
si respira ancora nell’aria, nel modo di vestire della gente che mi circonda e
nella voglia di stare all’aperto. Le luci della sera si sono accese da poco e
siamo tutti in attesa di una grande performance.
È impressionante
l’accostamento tra la leggerezza, la soavità dei corpi dei ballerini e la forza
e l’imponenza degli edifici che mi circondano. Mi lascio cullare dalla musica
di Frank Sinatra. Le note di Strangers in the night mi portano in un
luogo indefinito, pieno di pace e tranquillità. Ho quasi voglia di innamorarmi
di nuovo.
10 settembre 2001
Questa mattina l’autobus
è particolarmente lento. Siamo bloccati in un ingorgo tra Stuyvesant e Bedford
avenue. Mi avvicino al conducente.
«Mi scusi, sono
in ritardo. Devo raggiungere Flushing avenue entro le otto… sono un’insegnante.
Può dirmi se c’è un altro mezzo che posso prendere?»
«Da qui no!» mi
risponde bruscamente l’autista.
«E si può sapere
perché ci spostiamo al ritmo di una lumaca?»
«C’è un cadavere
pochi metri più avanti che blocca la strada. Bisogna aspettare che arrivi la
polizia.»
Penso di non
aver capito bene e chiedo di nuovo cosa blocca la strada.
«Un cadavere! Un
corpo morto! Probabilmente sarà un altro ragazzino. In questa zona c’è una gang
particolarmente crudele. Sarà il terzo o il quarto che ci resta secco negli
ultimi due mesi.»
«Ma sta
scherzando?»
«E chi scherza!
Signorina, non so se ne è accorta ma qui siamo a Bushwick.»
L’autobus
riparte poco dopo. Vedo a terra un lenzuolo bianco che copre un corpo non
particolarmente grande né robusto. Una donna poliziotto traccia una sagoma con
il gesso, poi adagiano il ragazzo ai margini della strada per permettere al
traffico di riprendere a circolare.
Arrivo a scuola
in ritardo. Maria, la segretaria amministrativa, mi dice di firmare l’entrata
alle otto e quindici guardandomi con disprezzo.
«Mi spiace, so
che è tardi ma sono rimasta bloccata sull’autobus. C’era un cadavere in mezzo
alla strada.»
«Può succedere…
bisogna uscire prima di casa. I ritardi qui sono considerati in modo
estremamente negativo, tanto più se a farli sono gli insegnanti. Per cui le
consiglio di svegliarsi prima la prossima volta se non vuole avere dei problemi
con Mr. Fernandez. Io devo fare il mio lavoro, per cui per favore firmi il
registro di fianco all’ora di arrivo.»
«Io non ho
nessun problema a firmare questo stupido registro ma ho un problema con il fatto
che oggi un ragazzo è morto!»
«Si sarà messo
in qualche pasticcio. Probabilmente spacciava droga. E ora vada in classe
altrimenti i minuti da quindici diventano venti e mi creda non è piacevole
essere convocati da Mr. Fernandez per questo».
11 settembre 2001
Racine entra in
classe, si siede e inizia a parlare con Unique in modo concitato.
«Potrei sapere
cosa hai di così interessante da raccontare?» le chiedo, visto che non smettono
di confabulare.
«Un aereo si è
appena schiantato contro una delle Torri Gemelle.»
La fantasia tra i ragazzi di quindici anni è galoppante,
ma questa storia come le sarà venuta in mente? Penso sia il solito test a cui devo sottopormi per
guadagnarmi rispetto e fiducia, continuo la spiegazione, ma per un attimo un
brivido mi percorre la schiena.
La seconda ora
di lezione finisce alle nove e trenta. Mi dirigo verso la segreteria per
controllare se c’è posta, nel corridoio, stranamente, non incrocio nessuno dei
miei colleghi e c’è un insolito silenzio. Entro nell’ufficio del preside e
trovo Maria circondata da una ventina di persone. Mi avvicino anch’io. La radio
è accesa e una voce lontana parla in modo veloce e molto agitato. I volti
intorno a me sono coperti di orrore. Mi fermo ad ascoltare, non ho il coraggio
di fare domande, Maria mi informa che due aerei hanno colpito le Torri Gemelle.
È sicuramente un attentato.
«Un attentato?
Come? Perché?» Cammino velocemente lungo il corridoio in direzione del lato
nord-ovest, quello che guarda verso il sud di Manhattan, fino a raggiungere una
finestra. L’azzurro del cielo settembrino è coperto da una nuvola grigia di
fumo, le Torri Gemelle sono in fiamme. È una visione surreale e crudele al
punto da togliere il fiato.
Pochi istanti
dopo crollano. Tutto succede in silenzio, quasi al rallentatore. La scuola, per
un istante, si trasforma in un’immensa mongolfiera. Mi sembra di fluttuare nell’aria
insieme alla pioggia di fogli bruciacchiati e ai brandelli di documenti che,
volando, stanno attraversando il fiume e inondando Brooklyn, quasi per lasciare
una testimonianza corporea delle migliaia di persone che hanno appena perso la
vita, soffocate, sotterrate da tonnellate di macerie, bruciate.
Il panico si
scatena a scuola. Nel corridoio, Fernando, uno degli studenti della mia junior class, urla disperato: «Mamma! Mamma!»,
in quattro cercano di tenerlo fermo e rassicurarlo eppure continua a
dibattersi, come un agnello prima del macello.
I terroristi hanno colpito il centro finanziario di New
York, hanno probabilmente ucciso molti professionisti dell’economia mondiale ma
accanto a loro, dentro le torri, c’erano anche le centinaia di persone che,
come la madre di Fernando, lavoravano come inservienti, camerieri, personale
delle pulizie.
E il mio
pensiero va a quei volti che ho incontrato solo tre giorni fa: al ragazzo dell’ascensore,
alla barista del Windows on the World,
al cameriere che era stato così gentile con me.
A poche ore dall’attentato
la città è in ginocchio, non funziona più nulla, non si riesce a telefonare né a
spedire una email, tutti i mezzi di trasporto sono bloccati. Siamo
immobilizzati, incapaci di rassicurare i nostri cari, di dire loro che siamo
ancora vivi. È una sensazione terribile, di totale impotenza.
Entro in classe,
è la sesta ora. Abbiamo saputo che un aereo si è schiantato sul Pentagono e un
altro è stato dirottato, ed è caduto al suolo, vicino a Pittsburgh. È come se
fossimo tutti in attesa di sapere cosa succederà poi. Finirà davvero il mondo oggi? O forse distruggeranno solo l’America? O
magari torneremo tutti a casa questa sera? E nell’assurdità di questa
situazione, non c’è nulla che posso fare, se non insegnare. Gli studenti della
nostra scuola sono per la maggior parte minorenni e non possono uscire prima
del previsto a meno che qualcuno non li venga a prendere.
Provo a scrivere
alla lavagna un’equazione ma il gesso si rompe tra le mie dita, quasi capisse
la follia di questa situazione. Guardo i ragazzi.
«Oggi facciamo
qualcosa di nuovo. Un tema, cioè un componimento letterario.»
«Dobbiamo
scrivere?» mi chiede Alicia.
«Esatto!
Prendete carta e penna e buttate sul foglio tutto ciò che pensate, sentite o
giudicate importante. Tutto ciò che volete condividere con me e con i vostri
compagni. Vi scrivo il titolo, con questo pezzettino di gesso che mi è
rimasto.»
Premo con forza
il gesso sulla lavagna e scrivo: Titolo “Cosa cercano le persone in questo
mondo?”.
C’è silenzio, un
silenzio insolito. Non sembra neppure la mia classe. Li lascio scrivere per un
po’, poi iniziamo a discutere.
«Cosa cercano le
persone in questo mondo? Avete una risposta?»
«Amore e
amicizia!» afferma Noemi.
«Istruzione!»
urla Racine.
«Successo e
soldi!» suggerisce José.
«Pace» dice
infine Melissa.
«E come
giustificate allora il fatto che ci siano persone che non cercano la pace, che
arrivano al punto di ammazzarsi ed ammazzare, che perdono il rispetto per la
propria vita e per quella degli altri?»
Racine confessa
di non saper rispondere alla mia domanda, si stupisce per la crudeltà che hanno
dimostrato i terroristi ed è convinta che qualcuno li abbia riempiti di soldi
per arrivare a tanto. Noemi invece pensa che, se è vero che si tratta di
estremisti, come ha ipotizzato la radio, forse la ricompensa promessa è il
paradiso, ma non riesce a spiegarsi come loro non sappiano che il paradiso, se
ce ne sarà poi uno, si conquista con l’amore. In classe la discussione si
accende. I ragazzi, come me, non riescono a dare delle risposte alla
drammaticità di ciò che stiamo vivendo.
Mi fa sorridere
Alicia quando afferma che però una cosa è certa: i terroristi sono persone che
non hanno figli.
12 settembre 2001
La scuola è
chiusa. Ieri sono arrivata a casa alle sei del pomeriggio e mi è andata molto
bene. Non abbiamo avuto notizie di Pilar fino alle undici di sera, lavorando
nel Bronx ha dovuto attraversare tutta Manhattan e parte di Brooklyn a piedi.
Mentre la aspettavamo, seduti in cucina di fronte alle immagini che continuava
a versarci addosso la televisione e con un occhio sempre rivolto all’orologio,
abbiamo sentito un’ansia sottile scendere nei nostri corpi, fino ad arrivare
sotto la nostra pelle. Un malessere profondo, che forse non riguardava la
preoccupazione per un solo essere umano, ma per molti di più.
Com’è potuto
succedere tutto questo? E come risponderà l’America? I giornali di oggi indicano Osama Bin Laden come la
mente dell’attacco. La CNN, nel pomeriggio, ha trasmesso delle immagini poco
felici: un gruppo di palestinesi ballava ed esultava, facevano festa. Una
verità molto parziale che però è servita a rafforzare il discorso alla nazione
che Bush ha fatto ieri sera. «La libertà stessa è stata attaccata questa
mattina da vigliacchi senza volto» ha proclamato con gli occhi lucidi ma
decisi, concludendo con: «La libertà sarà difesa!».
Gli ospedali
sono stati trasformati in centri per gestire il trauma; molti dei sopravvissuti
non sanno chi sono, dove sono e dove vivono. Già da ieri mattina, migliaia di
volontari si sono messi in fila per donare il sangue, ed erano così tanti che
molti sono stati mandati a casa nonostante i mille e cento feriti. Centinaia di
persone sono state evacuate via nave, hanno attraversato l’Hudson River e sono
state accolte in New Jersey. Il Liberty Park è diventato un centro di prima
accoglienza. Centinaia sono stati i soccorritori entrati nelle nuvole di fumo e
detriti per cercare dei corpi ancora vivi senza mai arrendersi.
Esco di casa. Un
sole caldo settembrino riscalda l’aria e il cielo è di un azzurro intenso,
luminoso. È la giornata ideale per andare al mare. Per un istante, il mio
pensiero corre indietro nel tempo, veloce e implacabile, quasi volesse
cancellare gli ultimi giorni vissuti e tornare a quel mattino di ferragosto,
quando al Madison Square Garden, durante un workshop, ho immaginato i miei
amici al mare.
Mi dirigo verso
Brooklyn Heights. Cammino tra i negozi e i bar che caratterizzano questa zona.
C’è un’atmosfera strana, quasi irreale. Vedo qualcosa che non mi sarei mai
aspettata: volti sereni, persone intente a far colazione, come se nulla fosse
successo. Sembra davvero di essere al mare. E in fondo è proprio lì che mi sto
dirigendo. Devo farcela. Voglio vedere lo skyline di Manhattan. Ricordo troppo
bene quando una settimana fa ci sono stata con Andrea. Ci siamo seduti a terra,
sul porticato, e siamo rimasti per quasi un’ora a guardare l’imbrunire, con l’aria
calda della sera che ci cullava. E nonostante la fame, nessuno dei due voleva
muoversi. Era troppo bella l’immagine che si apriva di fronte ai nostri occhi.
E se fosse stato solo un brutto sogno? Magari non è
successo nulla. Tutto potrebbe essere come prima, se solo riuscissi a
svegliarmi. Ora vado lì. Voglio vedere le torri, quelle torri su cui ho
appiccicato le mani e il naso per guardare un po’ più lontano, quelle su cui ho
ballato e sognato di tornarci con te, amore mio, che non ci sei ma che un
giorno ci sarai.
Più mi avvicino
all’East River più i sorrisi si spengono e lasciano spazio al silenzio, quel
silenzio inquietante, tangibile, denso che ieri mi ha invaso nel corridoio
della scuola, prima di sapere la verità. Arrivo nel parco che affianca il lungo
passeggio di Brooklyn Heights. È un cimitero. Ci sono candele accese,
biglietti, foto. Un cartello indica la strada per la più vicina caserma dei
pompieri: ottantatré uomini sono dispersi. Alzo lo sguardo oltre il fiume. La
città è stata mutilata. Di fronte a me non c’è più New York, o perlomeno questa
non è più la mia New York. Per la prima volta da ieri sento le lacrime
scendere, calde, grandi e interminabili.