lunedì 20 luglio 2020

Intervista con la storia: Simona Abbafati e Oriana Fallaci

INTERVISTA CON LA STORIA 8

Il progetto è nato per sensibilizzare e raccontare il periodo di pandemia mondiale che stiamo vivendo.  Chiederemo aiuto a personaggi illustri del passato, a quelle donne e a quegli uomini che hanno fatto la storia.  Ascoltare la loro voce ci permetterà di riflettere e forse ci  aiuterà ad affrontare questo periodo con maggior consapevolezza e saggezza. Sarà la persona intervistata a scegliere il suo ‘mentore’ e a farci ascoltare la sua voce, dopo aver passato almeno una settimana insieme a lei/lui attraverso letture, visioni di video, ricerche. I mentori potranno avere pareri discordanti, addirittura opposti, non siamo qui per giudicarli ma per ascoltare la loro voce, per capire cosa ci direbbero se fossero qui, ora, con noi. Oggi abbiamo con noi Simona Abbafati e la sua mentore Oriana Fallaci.


SIMONA ABBAFATI


Simona nasce a Velletri, nel cuore dei Castelli Romani nel 1986. I suoi forti legami familiari rappresentano, sin dall'infanzia, il terreno fertile di uno sviluppo emotivo caratterizzato da genuinità e sensibilità. Si laurea dapprima in Scienze politiche e successivamente in Analisi economica, conservando sempre un'ottica eclettica ed uno slancio verso il mondo che vorrebbe trasformare in qualche modo. Alla grande città preferisce la tranquillità del piccolo paese e così, dopo aver vissuto a Roma durante il periodo universitario, decide di tornare nella sua Lariano, immersa nella natura. È insegnante di Economia aziendale, un lavoro che ha scelto e le consente di sprigionare le sue innate capacità empatiche e la sua inclinazione verso gli altri. Quando non è con i ragazzi si dedica alle sue grandi passioni: l'arte, il cinema, la poesia, la lettura, la scrittura, lo studio. Ama gli animali, fare escursioni in montagna, passeggiate in vicinanza del mare e viaggiare andando sempre alla ricerca di posti, volti, situazioni e atmosfere nuove e particolari. Ciò che non la abbandona mai durante il suo percorso è la voglia di migliorarsi e di affermare la sua identità. Ci siamo conosciute dopo che lei ha letto ‘Un anno e un giorno’ e mi ha scritto una e-mail commovente.



ORIANA FALLACI

Scrittrice di fama mondiale, con i suoi dodici libri ha venduto circa venti milioni di copie in tutto il mondo. Diretta, sincera, coraggiosa, Oriana è la prima di quattro sorelle. Il padre Edoardo fu un attivo antifascista che coinvolse la figlia, giovanissima, nella resistenza (faceva la staffetta). La giovane Oriana si unì alle Brigate Giustizia e Libertà, formazioni partigiane, vivendo in prima persona i drammi della guerra.Dopo aver conseguito la maturità al liceo classico, si iscrisse alla facoltà di Medicina, poi passò alla facoltà di Lettere ma abbandonò anche questa per dedicarsi al giornalismo e divenne reporter di guerra (famosi sono i suoi resoconti e le sue interviste ai maggiori leader politici fatti con schiettezza e intelligenza). Il 22 agosto 1973 conobbe Alesandros Panagulis, un leader dell'opposizione greca al regime dei Colonnelli. Si incontrarono il giorno in cui lui uscì dal carcere e non si lasceranno più fino alla morte di lui, avvenuta in un misterioso incidente stradale il 1º maggio 1976. Durante gli ultimi anni di vita, vissuti a New York, prese delle posizioni nette contro l’Islam, in seguito agli attentati dell’11 settembre e visse una vita ritirata, concentrata sulla scrittura.




Se Oriana Fallaci oggi fosse qui:



  1. Metterebbe la mascherina?
No, non metterei la mascherina per il semplice fatto che non ne avrei bisogno. So tenermi a debita distanza dai miei simili. Sono una donna asociale che ha vissuto spesso lunghi periodi di esilio insieme ai suoi bambini di carta e che agli eventi mondani preferisce un campo di concentramento nazista. Quindi le occasioni di contatto con altre persone sarebbero pressoché inesistenti. Vero è, però, che se avessi la necessità di viaggiare come inviata ai tempi del Covid, non mi ribellerei. Sarebbe stupido rinunciare ad un'intervista importante per il fatto di non voler indossare una mascherina. Insomma, ho indossato il chador per intervistare Khomeini e la mascherina è un indumento che quantomeno ha un'utilità: serve ad evitare che soggetti deboli finiscano i loro giorni con un tubo di ossigeno in ogni narice come accadde a mia madre.



  1. Scaricherebbe l’app Immuni? Accetterebbe un controllo sugli spostamenti degli individui? Starebbe a distanza dai propri simili? Baratterebbe la sua libertà per una forma di sicurezza?
Io sono nata sotto una tirannia ma ebbi la fortuna di nascere in una famiglia antifascista. Sono stata educata nel culto della libertà, ho imparato da bambina ad amare coloro che la difendono e a odiare coloro che la opprimono. Mai ho scritto un libro, un reportage o una lecture che non avesse toccato il tema della libertà. Ho sempre cercato la libertà individuale anche nei rapporti personali. Spesso il mio culto della libertà è stato frainteso (visto che per libertà non intendo caos e licenza e come dicevo sempre ad Alekos, la libertà è un dovere prima che un diritto). Trovo infatti che il lato più tragico della condizione umana sia quello di aver bisogno di un'autorità che governi, di un capo. La mia idea di libertà fa riferimento ad un concetto alto. Un qualcosa di sacro, di superiore, un utopistico stato in cui il cittadino si governa da sé senza offendere gli altri, senza uccidere. Capisco che la libertà così intesa non esiste. Nei suoi Pensieri Lacordaire definisce la libertà individuale come "il diritto di fare ciò che non danneggia gli altri". Ed è giusto. Però resta il fatto che l'esercizio della propria libertà finisce sempre o quasi sempre col danneggiare o limitare quella degli altri. La libertà vera, pura, esiste soltanto nel sogno. La libertà è un sogno. Però guai a non rincorrerlo, guai a stancarsene, a rinunciarvi pensando che è vano inseguire ciò che non esiste. Senza questo sogno perfino l'intelligenza si estingue e la capacità di creare, di distinguere il buono dal cattivo , il bello dal brutto. Il più bel momento di dignità umana per me resta quello che vidi su una collina del Peloponneso insieme ad Alekos, era l'estate del 1973, Papadopoulos era ancora al potere. Non si trattava di un simulacro e nemmeno di una bandiera, ma di tre lettere, OXI, che in greco significano NO. Uomini assetati di libertà le avevano scritte tra gli alberi durante l'occupazione nazi-fascista e, per trent'anni, quel no era rimasto li senza sbiadirsi alla pioggia ed al sole. Poi i colonnelli lo avevano fatto cancellare. Ma quelle lettere riaffiorarono testarde, disperate, indelebili.
Quindi, tornando alla domanda, NO. Non permetterei mai a niente e a nessuno di controllare i miei spostamenti, né di minacciare, seppur minimamente, la mia libertà. Certo, i vostri sono tempi diversi, voi siete ormai abituati ad essere controllati nella vostra quotidianità e capisco che un controllo in più non faccia differenza. Ma io trovo tutto questo un'offesa alla natura umana. Dovremmo essere capaci di tutelarci da soli, dovremmo essere capaci di usare buon senso, di auto-determinarci, almeno in questo.


  1. Si sarebbe sentita disorientata in questo momento? In cosa avrebbe sperato per il futuro? Cosa ci direbbe? Cosa farebbe?
Molto probabilmente se fossi ancora viva in questo momento me ne starei in esilio a scrivere e molto distante da tutti, indipendentemente dalla minaccia del virus. Non credo mi sentirei disorientata. Una donna come me, scrittrice, giornalista che è andata in guerra ormai non si sorprenderebbe e non si disorienterebbe praticamente di fronte a nulla. Parlo così facendo riferimento alla me vecchia e malata di cancro che vuole solo passare gli ultimi anni della sua vita a scrivere e ad osservare da lontano.
Facendo riferimento alla me giovane, probabilmente sarei in prima linea, con o senza mascherina, a raccontare le implicazioni che la lotta a questo mostro invisibile comporta. Sottolineerei le ripercussioni negative e positive che la cosa ha sull'essere umano, la sua socialità, il suo essere animale politico.
Elogerei l'operato dei medici, degli infermieri, dei lavoratori, eroi di una strana guerra. Criticherei senza pietà la politica dei politicanti che mostra in questi casi di difficoltà tutta la sua bassezza e la sua inutilità. Vi direi di svegliarvi, di rendervi conto di quanto siete fragili e continuamente sotto minaccia se non riuscite a sfruttare con raziocinio la potenza e l'intelligenza che è intrinseca nella natura umana.


  1. Cosa definirebbe scuola? Accetterebbe la didattica a distanza?
Dopo essere stata rincretinita dalla scuola fascista che è il primo nemico della cultura, mi svegliai con la Resistenza, a quel tempo il più grosso fatto culturale della nostra storia dopo il Risorgimento. In quel nobile periodo tuttavia non avevo letto nulla fuorché i manifestini che attaccavo sui muri e il "Non Mollare" affidatomi dai compagni. Quando Firenze fu libera immaginate con quanta arsura bevvi dal calice che mi era stato proibito. Studiai all'istituto magistrale fino al giorno in cui passai al Ginnasio, era il 1945. Mi piaceva la scuola e studiavo con diligenza, anche se tendevo ad abbandonare Erodoto e le equazioni per agguantare gli scritti di Carlo Rosselli e le opere di Gramsci. A scuola ero gaia, polemica, disubbidiente, civetta. Facevo arrabbiare i professori con la mia petulanza. Il fatto è che non leggevo e basta, partecipavo. Organizzavo scioperi ad esempio. Illusa da sogni impossibili volevo rifare il mondo e me la prendevo con i professori. A scuola potevo esprimere la mia ribellione.
Quindi ecco cosa è per me scuola: il luogo dove il ragazzo si confronta per la prima volta con l'altro e con il gruppo diverso dalla famiglia. Il luogo dove può aprire la mente ed esprimere le proprie idee nel concreto; il luogo dove inizia a comprendere cosa è la società e il luogo dove si va formando la sua coscienza politica. È, inoltre, il primo luogo dove impara a scontrarsi con l'autorità.
Alla luce di tutto questo, non potrei accettare la didattica a distanza. Con essa la scuola si ridurrebbe a mera nozionistica e la scuola non è questo.



  1. E tu Simona, cosa pensi di quello che sta succedendo? Quale pensiero ci regali oggi?
Non sto vivendo bene questo strano periodo. Sono tra quelle persone che non hanno gridato entusiaste fuori dai balconi "andrà tutto bene" e non dimenticherò mai il corteo silenzioso dei camion dell'esercito per portare le bare fuori regione, a Bergamo. Non dimenticherò mai l'ansia del bollettino serale della protezione civile.  Forse per un attimo ci ho anche creduto che potesse andare tutto bene, erano i primi giorni di lockdown ed ero contenta di stare a casa con i miei libri, i miei pennelli, la mia gatta e i miei cari. Ho creduto che uniti per sconfiggere un male comune, potessimo imparare a vivere meglio, potessimo riuscire a modificare le brutture che affliggono la società odierna. Ho creduto nella forza e nella bellezza dell'essere umano. Ma ben presto mi sono resa conto che questa situazione  altro non è che lo specchio dei tempi che stiamo vivendo. Come in qualsiasi altra situazione di difficoltà sono venute fuori le contraddizioni della natura umana. L'imbruttimento che ci perseguita ormai da anni, la bassezza della politica, degli sciacalli che urlano, ci offendono nel profondo e insultano la nostra intelligenza dai loro profili social. Abbiamo visto quanto può essere meschino l'essere umano quando, superficialmente, non rispetta se stesso e i propri simili nel momento in cui banalmente non indossa una mascherina, non rispetta una distanza. Ma abbiamo visto anche il coraggio e la dignità negli occhi dei medici, degli infermieri, dei lavoratori, di tutte quelle persone che si sono fatte forza, che hanno aiutato, anche nel loro piccolo, e che combattono silenziosamente ogni giorno la lotta contro l'imbruttimento della natura umana. Mi voglio aggrappare a questa bellezza chiudendo con un pensiero positivo, con un ottimismo diverso da quello inconsapevole che usciva dagli arcobaleni sui balconi dei mesi scorsi, un ottimismo consapevole: non andrà tutto bene ma ce la faremo. Torneremo a respirare.

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